Gli incontri casuali con persone che non vedi da tempo hanno il pregio che la cerimonia della sorpresa, lo scambio di notizie, magari l’abbraccio fraterno e sincero si concludono in pochi minuti. C’è un treno in partenza, amici con cui ricongiungersi, magari c’è da rimettersi in fila per un biglietto o per pagare un ticket. Ci si promette una telefonata, un rivediamoci. Chissà. Alla prossima. Rimane la piacevole sensazione della sorpresa, mentre riemergono i ricordi, quelli tutti tuoi, nella breve spiegazione che devi a chi ti sta a fianco, e ti chiede: “Ma chi era?”.
Credo di essere abbastanza socievole e disponibile, ma non mi sono mai andate a genio le rimpatriate, e quando non ho potuto dire di no, sono stato al gioco, ma ne sono uscito con un retrogusto amaro. Non si scherza col tempo e coi ricordi. Meglio non rianimare, artificiosamente, quella foto di classe su due file interminabili con la corona dei professori, quell’immagine un po’ irriverente col basco militare a fare il saluto a una signorina di passaggio. Ma non è facile sottrarsi alle smanie di alcuni specialisti del settore che non ti mollano, votati alla risumazione a ogni costo. Stanno lì col calendario ad attendere la data fatidica del trentesimo dell’esame di maturità, del quindicesimo del congedo, magari della vittoria dell’Italia ai mondiali. E telefonano, telefonavano fine a qualche tempo fa, ora credo che smanettano e si immergono nella palude di facebook, per raggiungere i quattro cantoni. Difficile rimettere insieme i reduci di una terza liceo di una trentina di anime. Ma non impossibile. Lui, il promotore, ci si spende mane e sera, fino a reclutare quasi tutti. Perché, nel frattempo, buon dio, qualcuno è scomparso. Nel senso che è morto, defunto. E sarà argomento di stupore e conversazione, perché il suddetto reclutatore si è giudiziosamente informato sul perché e il percome di questa dolorosa defezione, magari importunando consorte e familiari, e chiudendo il contatto con le sentite condoglianze da parte dei reduci che si riuniranno anche nel ricordo di chi non c’è più. Non c’è più da sette otto anni, ma non fa niente. Così ti trovi nel ristorante prenotato, dopo un’attenta scelta del posto migliore per l’occasione: prezzo e menù inclusi. Non sai se vestirti da tutti i giorni o da semicerimonia. Arrivi fra i capannelli, e ti abbandoni alle pacche sulle spalle che riescono a superare più di un imbarazzo. C’è chi si è fatto cinquecento chilometri con la su Mercedes fiammante che ostenta, e chi abita a due passi. Chi è diventato un professore con clinica e moglie brillantante, e chi ti trovi davanti un po’ dimesso, fuori ruolo: una promessa non mantenuta, uno che valeva più di tutti, ma la vita gli si è messa di traverso. E così si va avanti sull’onda dei ricordi e degli aneddoti, ma nel distacco totale: perché quelli eravamo e non siamo più quelli. È un “ti ricordi” continuo: in molti non vediamo l’ora di salutare. Che tristezza il tempo che non si è fermato. Per questo, proprio l’altro giorno, ho spiegato con le buone maniere a una mia ex alunna, organizzatrice di una di queste rimpatriate, che era il caso che si vedessero loro, i ragazzini di qualche anno fa: quelli che spesso incontro e mi fa piacere sapere che hanno trovato un lavoro, che hanno dei bambini, che sono sani e belli. Sono contento così, anche perché a tavola non mi piace conversare col boccone in bocca. Così è stato per Peppuccio, una volta si diceva amico per la pelle degli anni delle medie e del liceo. Con Giuseppe, in famiglia Peppuccio, ci siamo persi di vista quando sono partito per il militare e poi per il Polesine e lui si è trasferito a Palermo. Mancava da molto dalla Piccola Città. Il fratello, che incontro spesso, mi aveva preannunciato questa visita. Avevo il timore di un pranzo con relativa esercitazione della memoria, vuota e inutile. Peggio, di una delusione. Invece, è stato un bel ritrovarsi. Ci siamo incontrati in televisione. Un bell’abbraccio, senza commozione, ma con un grande sentimento di amicizia, perchè eravamo davvero amici. Sembrava non ci fossimo mai lasciati. Abbiamo parlato del presente, delle famiglie e della salute. I ricordi, e qualche bella risata. Peppuccio la sua proverbiale precisione, l’estenuante lavoro del pettine prima di uscire, e parlare parlare nelle lunghe camminate: via Cencelle, il viale fino alla ghiacciaia, mai dopo le dieci di sera. È rimasto quel tepore delle sere d’estate nel nostro incontro. Un caffé sorseggiato con gli ammiccamenti e la complicità dell’amicizia di sempre. Ci siamo lasciati bene, con il sincero stupore di Peppuccio per aver ritrovato i nostri luoghi completamente cambiati. Abitava al Palazzo Bruzzesi con le finestre sul vecchio Pirgo, su via Thaon de Revel. Ora tutto è diverso, da rimanere a bocca aperta. Il lungomare, la Marina, il Forte, la Calata: che bellezza! Da non crederci. Una volta tanto una bella figura per la Piccola Città e per i suoi abitatori. E il presente che ripone il passato.