“Il lato chiaro”, un film interamente scritto e girato a Civitavecchia. Questa settimana la prima proiezione al pubblico, alla sala di vetro della darsena romana, a partire da domani con la presentazione riservata alla stampa. Sono tanti i protagonisti di questa avventura. Insieme a Fabrizio Orsomando, che è co-sceneggiatore, attore e regista del film, Christian Lucidi ha avuto un peso fondamentale. E oggi abbiamo scoperto il suo “lato chiaro”.
Allora Christian, la tua anima è in questo film: sei co-sceneggiatore de “Il lato chiaro”, attore in un ruolo importante e supervisore al montaggio. Vediamo uno per uno questi ruoli. Intanto il primo, perché scrivere un film?
«Perché, per come la vedo oggi, interpretare un personaggio che si è scritto da soli è l’unica maniera per dare un senso alla propria ricerca artistica attoriale. Ma non escludo di cambiare il punto di vista in futuro».
Lo sceneggiatore che scrive per l’attore… C’è anche una “necessità” ulteriore dalla quale nasce un film, questo film, e in generale un’opera d’arte?
«Certo. Un’opera d’arte è necessaria quando ha un messaggio e quando questo messaggio incita al miglioramento dell’essere umano, cosa che non significa spingerlo a un arbitrario “Bene”, ma semplicemente a fargli prendere coscienza di chi è. Qualora questi presupposti vengano a mancare si cade nello sfoggio di inutili virtuosisimi, nella semplice messa in scena di paranoie personali o – peggio di tutte, cosa che peraltro ha spacciato uomini mediocri per grandi artisti – nella “fotografia” della realtà: un mezzo che usa chi non ha nulla da dire per farci sapere che esiste».
A livello di scrittura qual è la più grossa soddisfazione che ti ha dato “Il lato chiaro”?
«Sapere che ci sono delle persone che hanno appuntato sul loro quaderno delle parti di dialoghi che io ho scritto, che magari faranno loro iniziare dei percorsi di riflessione».
E a livello attoriale?
«Essere riuscito a mostrarmi debole davanti alla telecamera».
Ecco, soffermiamoci un po’ sul Christian-attore. Intanto è vero quello che in molti dicono, e cioè che gli attori sono egocentrici?
«Assolutamente sì! Come potrebbero non esserlo? L’importante è che non siano solo quello…».
Ma secondo te perché nell’Italia di oggi, a parte le dovute eccezioni, il livello artistico degli attori cosiddetti professionisti è in molti casi basso?
«Perché in Italia nella maggior parte dei casi gli attori sono o macchiette, vale a dire semplificatori della realtà, oppure “recitatori”, e cioè esperti di dizione che però non hanno nessuna conoscenza della sfera emotiva e psicologica che dovrebbe essere propria di un attore».
Oltre a essere co-sceneggiatore del film e attore sei anche supervisore del montaggio… che ci dici di questo ruolo?
«È un ruolo che ho sentito di assumere per necessità… Tra le riprese appena finite e il prodotto di oggi, infatti, c’è stata una lunga e buia pausa in cui il risultato non era affatto soddisfacente, e anche se Fabrizio (il regista, ndr) continuava a metterci molta energia positiva, il fatto che vivesse ormai letteralmente davanti alla stazione di montaggio lo privava di un necessario distacco, cosa che lo stava portando verso esperimenti interessanti ma probabilmente non funzionali. In questa fase sono subentrato io, con la funzione di alimentare la sua ricerca da una parte, e di limitare qualche sperimentazione forse troppo azzardata che, per fare una battuta, la costante esposizione alle radiazioni del pc gli causava».
Come è stato il tuo rapporto col regista?
«Sicuramente mi ha arricchito su vari piani, anche se mi sono trovato spesso in disaccordo, per certi versi, sul registro attoriale che mi ha chiesto di tenere nel film e sulla caratterizzazione del personaggio; ma d’altronde è bene che in un film sia lui a tenere la rotta e bisogna seguirlo anche se non si condivide, queste sono le regole ed è giusto che sia così. La visione globale è la sua dopotutto, e a un certo punto bisogna arrendersi e fidarsi di quello che ci chiede di fare…».
Senti, un film non finisce quando è finito. Dopo viene la parte meno attraente per un artista, ma non meno importante delle altre, perché un film chiede di essere visto. Voi ci siete riusciti. Come siete arrivati alla selezione al Festival Internazionale di Lyon?
«I tempi erano evidentemente maturi e il fiore è semplicemente sbocciato, in un processo naturale, semplice e inarrestabile. Se poi vuoi la mia visione metafisica, visto che spesso io mi diverto a pensare e speculare in questi termini e ad analizzare le coincidenze, direi che il fatto che io in quel periodo vivessi a Lyon ha caricato il film del giusto fluido energetico! Gli altri componenti del gruppo oggi, a posteriori, pensano che la mia presenza lì fosse un segno del destino che qualcosa stava per succedere; in effetti, come dar loro torto?!».
“Il lato chiaro” può diventare un film famoso?
«Bhè, questo dipende da Dio, dal destino, dal karma… quindi non ne ho idea e non mi interessa. Ciò che mi interessa è che “Il lato chiaro” sia un film ben fatto, che a detta di esperti non ha nulla da invidiare a suoi colleghi più “promossi” dal circuito commerciale. Ci tengo particolarmente al concetto di “ben fatto”, perché se è vero che l’arte è il regno del soggettivo, troppo spesso si dimentica che ci sono anche criteri oggettivi per valutare le cose».
Infine, tu, “Il lato chiaro”, Civitavecchia. Come leghi questi tre elementi?
«Civitavecchia è un luogo di grandi talenti, in ogni campo, purtroppo spesso espressi parzialmente; spero che “Il lato chiaro” possa stimolare qualcuno, che ancora non lo ha fatto, a prendersi il rischio di spingere il proprio talento fino a fare qualcosa di veramente concreto e audace. Così magari, in un mio ipotetico periodo futuro “piatto”, ci sarà chi attraverso le sue azioni potrà ispirarmi e fungermi da modello da seguire».