TeatroPersona stupisce ancora. Aure, lo spettacolo che chiude la trilogia del silenzio della compagnia, presentato al teatro Traiano nell’ambito del cartellone “Nuove Creatività”, raccoglie lunghi applausi al termine di un’ora di intenso teatro. Come era accaduto anche con i due precedenti allestimenti di questo trittico di rinuncia al linguaggio verbale, sono i dipinti, stavolta del danese Vilhelm Hammershøi, a fornire le figure e la traccia, non solo pittorica, dalla quale si costruisce la scena.
Proprio come potrebbe succedere di fronte a un dipinto di Hammershøi, lo spettatore si trova dinnanzi un allestimento composto da tre porte bianche, a ulteriormente delimitare nei suoi tre lati lo spazio scenico. Porte che possono essere aperte per un breve passaggio, chiudersi bruscamente, socchiudersi, essere accompagnate con delicatezza o timore, spalancarsi a ingressi incontrollati, incontrollabili, spaesanti. Qui, in questa serie infinita di possibili apparizioni e sparizioni, il regista Alessandro Serra costruisce, con la consueta raffinatezza, questa sorta di “apparamento” interiore, che gli spettatori sono invitati ad abitare per un’ora. E allo spettatore sta la scelta di partecipare o meno alla vita di questo “appartamento”. Per starci, però, bisogna accettare nuove regole. Non serve a niente rincorrere una narrazione lineare o chiedersi chi, che cosa, perché? Il tempo perduto di Marcel Proust, alla cui opera si ispira Aure, è forse proprio quello che viene sovvertito e che lineare non è più, né può esserlo.
Ed è il tempo perduto dello spettatore, quello che per essere recuperato chiede un’apertura d’intuito. Queste le regole per seguire il crearsi e lo scomporsi delle immagini sulla scena: quadri quasi di teatrodanza, dove la parola – come detto – è assente del tutto, insufficiente o inutile – difficile dirlo – nella lotta che ogni immagine esprime. Essenze che cercano di fissarsi, di ricomporsi oltre una forma che non gli appartiene, l’anima che cerca di liberarsi del suo involucro materiale, l’abito, e cioè il corpo. Alla straordinaria tecnica degli attori, Valentina Salerno, Francesco Pennacchia e Chiara Michelini, il compito di esprimere questa tensione, che è forse il nocciolo dello spettacolo e il recupero consapevole e diretto del senso della ricerca proustiana. Un passo verso la verità, direbbe forse il regista, quella di ogni singolo spettatore in rapporto allo spettacolo, al suo tempo perduto e, chissà, forse recuperato.