Il comandante Max, Massimo Rendina, giornalista e partigiano, presidente del comitato provinciale dell’Anpi di Roma, protagonista e testimone della Lotta di Liberazione, la cui fermezza e statura morale costituisce per tutti una preziosa eredità, è venuto a mancare domenica scorsa. Lo ricorderemo con affetto e immensa gratitudine per i suoi insegnamenti, facendo tesoro della sua esperienza, senza necessità di aspettare ricorrenze o celebrazioni, lo porteremo nel cuore e nella mente, ogni giorno.
Il nostro è un paese dalla memoria corta, alternata, tutti fascisti fino al 25 luglio del ’43, tutti antifascisti a Liberazione avvenuta. Fino a pochi decenni fa si cantava Bella ciao nelle scuole, oggi, provate a chiedere agli adolescenti, il 25 aprile è un giorno di festa, perché non si va a scuola, o, tutt’al più, roba da comunisti. Il proliferare delle memorie istituite per legge, il dovere della condivisione, hanno finito con lo svilirne il senso, generando omissioni, mistificazioni e confusione.
Noi italiani, infatti, non ci facciamo mancare nulla, anzi di più. Se gli altri paesi europei hanno un giorno della memoria, noi ben due: il 27 gennaio, il Giorno della memoria, e il 10 febbraio, il Giorno del ricordo. Nel primo caso tributiamo l’omaggio alle vittime della Shoa, condanniamo la ferocia nazista, nel secondo l’omaggio è rivolto alle vittime delle Foibe, condanniamo la follia omicida di segno opposto ma uguale, lo spettro comunista dei partigiani di Tito. Pari e patta, gli estremismi, anche se di segno opposto, finiscono col toccarsi. In entrambi i casi ne usciamo bene, ci autoassolviamo, impotenti spettatori o vittime; ricordiamo si, ma le responsabilità sono sempre degli altri, barbari tedeschi o slavi comunisti, italiani “brava gente”. Si invoca la memoria e si pratica la rimozione: si derubricano le leggi razziali italiane come imitazione imposta dall’alleanza tedesca, si dimenticano le ovazioni al Duce quando nel ’38 le annunciò a Trieste, si dimentica che furono italiane le mani che nel ’39 redassero le liste che portarono ad Auschwitz altri italiani di religione ebraica, si dimentica la feroce e spietata occupazione militare (italiana e tedesca) dei Balcani e anche dell’Istria e della Dalmazia, si dimenticano le vittime slave dei lager italiani nei Balcani e nel suolo italiano; si dimentica che degli oltre 300 criminali di guerra italiani nessuno ha mai risposto davanti alla giustizia, molti sono stati riabilitati .
Nella ricorrenza di queste date, istituzioni, scuole, tv, giornali ed editoria rispondono al dovere, istituito per legge, di celebrare il ricordo; impossibile sottrarsi al profluvio di immagini, storie, documenti, eventi, inevitabilmente l’orrore ci pervade, le emozioni prendono il sopravvento, commozione e disgusto ci accompagnano,ci sentiamo ebrei o esuli in fuga, almeno fino al giorno dopo, poi tutto passa. Ricordare perché non accada mai più, con buona pace di quanto accaduto nella ex-Jugoslavia o in Ruanda. Il 27 gennaio amministrazioni, scuole, associazioni sono colte da un’ansia da prestazione nell’organizzare conferenze, tavole rotonde, proiezioni, se si è fortunati incontri con i testimoni. Quello che manca, spesso, è una approfondita contestualizzazione storica sulle secolari radici dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo, sulle origini dei ghetti e della stella gialla, che non sono invenzioni naziste.
Per il Giorno del ricordo si è scelto il 10 febbraio, che non è la data di alcuna foiba, bensì del trattato di Pace di Parigi, creando una sovrapposizione e linearità tra foibe ed esodo degli italiani sprovvista di fondamenti storici, si è scelto dunque di mettere in discussione i confini stabiliti nel 1947, facendo proprie le tesi della destra revanscista e ultranazionalista, alla faccia dell’Europa senza frontiere.
Il rischio della memoria a gettone e del proliferare delle celebrazioni è di generare un effetto opposto a quello perseguito: nel calderone dei ricordi la storia è sottoposta a un lifting , pronta a uso e consumo della politica e di un pubblico pronto a confonderla con la fiction, dove le ragioni degli uni si confondono con quelle degli altri, poco importa se si è combattuto da una parte o dall’ altra. La morte ci rende uguali, diverse permangono le ragioni per cui si muore, sussiste un’asimmetria inconciliabile tra le memoria di un fascista e quella di un partigiano, memorie non condivisibili.
Da alcuni anni e fino allo scorso anno il circolo Anpi di Civitavecchia ha dedicato a queste tematiche diversi momenti di riflessione nell’ambito di iniziative inserite in progetti articolati, svolti in collaborazione con la Provincia di Roma e poi con l’Ufficio Istruzione del Comune di Civitavecchia, che hanno visto il coinvolgimento di studenti e insegnanti e il supporto dell’Archivio Centrale di Stato, dell’ Unione Comunità Ebraiche di Roma, della Federazione Nazionale Insegnanti e di storici professionisti. Fino allo scorso anno, ma questa è un’altra storia.
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David Stella
Segretario circolo Anpi “Ezio Maroncelli” – Civitavecchia