Quanto eravamo baccalà, bocconi, accontentarelli, ingenui con le nostre canottiere bianche e calzoncini stretti stretti a passare ore e ore a dare zecche e zecchette ai tappetti della birra sulla pista di polvere del nostro giro d’Italia nel piazzaletto sotto casa, a salticchiare sfidando il padron del marciapide che je puzzano le piede, e così via. Fino alle inguattarelle inguattacieca interrotte, a sera, dalla chiamata urlata a squarciagola delle madri con allegata promessa di cioncature. Sempre sudati e imborotalcati dalla polvere che c’era dappertutto, col solo refrigerio dell’acqua della fontanelle, senza i cappelletti marchiati e multicolori di là da venire che sostituivamo col fazzoletto da naso a quattro nodi messo in testa per riparasi dal sole.
Ma quanto eravamo fregnoni a correre appresso alle palline, a smazzare continuamente le figurine sempre più consunte! Voi direte, cari amici vicini e lontani, che, in fondo, non è cambiato niente perché fregnoni eravamo e fregnoni sono coloro che, sempre della stessa età tenerella, passano ore e ore a scrivere messaggini sul cellulare. E allora, questa considerazione mi rende felice, mi fa pensare che noi, tutte quelle ore, non le abbiamo spese invano, perché questi c’hanno solo questo di gioco, noi cambiavamo continuamente, e potevamo permetterci, quando c’eravamo stufati, di lasciare a casa le figurine tenute insieme dall’elastico e tirare fuori dall’unico cassetto qualche vecchia moneta regia con l’effige di Pippetto, nonché il re sciaboletta Vittorio Emanuele III, e dedicarci al sottomuro. E poi c’erano i giochi di maggiore spessore intellettuale, adesso si dice così, come uno due tre stella, le belle statuine e, soprattutto, l’impegnativo gioco del silenzio. Bisognava essere proprio bravi di testa, perché si trattava di cancellare la nostra prorompente loquacità. Prorompente loquacità che suona tanto bene, che vuol dire che era come scalare una montagna mantenere il silenzio per noi e per tutto il piccolo mondo che ci circondava con un sonoro sempre esageratamente alto, fatto di grida e di urla. Nella classifica dei decibel della mia infanzia il primo posto va sicuramante ai bancaroli del mercato, il secondo ai muratori e manovali che cantavano a squarciagola per accompagnare il lavoro, il terzo alle mamme con richiamo alla prole dalle finestre per il rapido ritorno fra le quattro mura domestiche o per qualche servizio vini scelti sale e tabacchi, il quarto all’ombrellaro che con la sua cantilena in crescendo superava l’annuncio dell’arrivo dell’arrotino: poco più di una nenia modulata. Mi fermo al quinto posto, per ricordare, un paio di maestri delle mie, nostre elementari di via sedici settembre, che atterrivano con i loro do di petto la scolaresca rumoreggiante. La Piccola Città è sempre ed è rimasta esageratamente vociante, in ogni luogo. Se vai a farti le analisi, dal medico, perfino in chiesa o al cimitero, dove il silenzio dovrebbe essere veramente d’oro, si passa dal parlottio fastidioso di sottofondo, alla vera e propria gazzara di gruppo, perfino al cinema o al teatro durante gli spettacoli. Per questo mi chiedevo, fino a ieri, che cosa era successo da qualche giorno, da lunedì scorso, per essere precisi. Ero diventato sordo? Era capitato qualcosa di irreparabile che non sapevo? Insomma, perché un po’ dappertutto il volume a palla degli abitatori della Piccola Città era stato posizionato sull’altoparlantino del muto? La spiegazione me l’ha data l’amico Francesco che, percorrendo giorno e notte con la sua bicicletta strade, stradine, vicoli e simili, immolando le sue consunte parti basse sulle buche e le voragini, finisce per sapere tutto: proprio tutto, un po’ come il narratore dell’Amarcord felliniano. Ricordate? Così mi ha spiegato che, se tendo l’orecchio, oltre al rumoroso silenzio posso percepire un ritmato rosichio. “Stacci attento, che lo senti! Non è tutto uguale!”. È vero: passegian-passeggiando percepisco il rapido movimento delle dentature: dal più frenetico alla Cip&Ciop a quello più metodico del topolino Jerry in pausa pranzo dopo le rincorse col gattone Tom. Si va bene, va tutto bene. Ma ci deve essere una spiegazione. Silenzio e rosichio. Mi viene in aiuto ancora l’amico Francesco, questa volta spaparanzato sul divano, e mi legge alcuni versi di Trilussa: “Un Cavallo, parlanno cór Leone,/ je disse: Quanno fanno un monumento/ per onorà l’Eroe d’una nazzione,/ io sto per aria in cima ar basamento/ e tu stai sempre giù pe’ guarnizzione… / Er Leone rispose: E se domani/ l’Eroe se scoccia e scegne da cavallo,/ povero amico mio, come rimani?/ chi te difenne da li ciarlatani/ arampicati intorno ar piedistallo?”. Che c’entra er monumento di Trilussa con il silenzio, il rosicare, questo strano fenomeno otorinolaringoiatrico della Piccola Città? Gli è che, finalmente, nello stagno governato dai cinquestelle si è mossa qualche cosa. Una bella cosa. Un’aiuola tutta verdeggiante e infiorata con un cippo di travertino. Insomma una cosa a modino: una cerimonia con le autorità, i discorsi, le bandiere al vento. Peccato. Non c’era la banda, ma il sottofondo sì. Troppo bello per essere vero, di questi tempi e in questa Picciola Città sbiadita dalle stelle cadenti. Troppo bello. E allora c’ha messo la manina avvelenta qualcuno che ha storpiato una parola. Mica ha fatto a bella posta. Un refuso lo trovi persino nella Treccani o nella Pléiade Gallimard. Ma il troppo bello, quello fatto dagli altri non esiste. Qui è d’obbligo la cianchetta e l’invidietta spocchiosa dell’impotenza che spera, anela, prega con trasporto affinchè il prossimo sbagli, inciampichi, si rompa l’osso del collo. E così non è parso vero alle cornacchie che alla base del cippo, ammirevole per la composizione e per il messaggio, un qualcuno avesse notato l’errore. Dal vesparo è uscito di tutto nella domenica quasi estiva. Tutti, proprio tutti, social e telefonisti, avevano visto e previsto. C’è stata una corsa spasmodica ad annunciare: “lo sapevo, certe cose non si fanno così”, “lo sbajo l’avevo già visto quando all’alba ho dato una guardata sotto il drappo rosso, ma non ho detto niente per non rovinare la festa”. In serata era possibile stilare una graduatoria dei corvi, condor e specie consimili in piena azione per demolire la stele degli Arditi. Un’opera meritoria di ricostruzione storica, gettata nel cesso dell’invidia, sempre con la catenella pronta. Per dire che un errore neppure da matita blu non ha rovinato la lodevole iniziativa. Il cippo sta lì, e ci sta proprio bene, fra la desolazione del verde cosiddetto pubblico; che dell’errore si erano accorti gli organizzatori, prima dei corvi e dei cecchini. E, per dire che il presidente della Compagnia, a cui hanno cercato di guastare la festa, ha fatto come il leone rivolto al cavallo di Trilussa. E ai ciarlatani ha imposto il silenzio e il relativo rosichio.