Il fusetto, di legno, piccolo con le due punte, come il fuso per la lana. Un gioco, più di un gioco, una sfida di abilità, velocità e potenza, un baseball prima del baseball con poche regole essenziali. La lippa, la nizza come viene, veniva, chiamato a Roma. Per noi, per il nostro gruppo di amici, una riscoperta per stare insieme, per un sano divertimento, un allontanamento dalla pesante aria che stagna sulla Piccola Città.
Qualche pomeriggio per riscoprire i vecchi giochi di quando eravamo ragazzini. Una terapia efficace nel segno del bonheur, della felicità, con lo scopo di realizzare un Album speciale di TRC, progettato da tanto tempo e, finalmente, realizzato. Un’idea un po’ pazza che ha trovato l’indispensabile sostegno materiale dell’amico Gianni che, con grande abilità e pazienza, ha realizzato i giochi con i materiali disponibili negli anni Cinquanta. E quindi una ricerca, una ricostruzione attenta, un recupero di tante piccole cose che abbiamo conservato: palline di vetro, figurine, monete, le pulci, lo shangai…. Un semplice divertimento: nessuna sfida a distanza con le giovani generazioni, e nessuna operazione nostalgia. Un mondo profondamente diverso con la matrice popolare, l’attenzione alla memoria, la manualità, la semplicità che sono state spazzate via dalla modernizzazione degli Anni Sessanta, e sono state cancellate dalla più recente globalizzazione. Va bene così. Ci si può divertire lo stesso a fabbricare il fuciletto di legno con l’elastico teso per far partire una pallottola di carta masticata a lungo, l’archetto con freccia costruito con le stecche, recuperate da un vecchio ombrello scoperchiato dal vento. La lista, la nostra lista, compilata in alcuni seminari tenuti sulla spiaggia del Pirgo, è lunga e ricca. Ci rientra il carrarmato che è nient’altro che un rocchetto di legno in cui ruota un elastico che muove una piccola leva che fa camminare il mezzo. Un po’ come il motoscafetto ricavato da una tavoletta anche questo con un elastichetto a poppa che fa girare un pezzetto di legno. A rivedere in azione questi giochetti c’è venuto da riflettere sul poco di cui ci nutrivamo e passavamo interminabili ore, dopo i compiti. Con Gianni, Massimo, Franco, Francesco, gli amici che hanno giocato con me, c’è venuto spontaneo riflettere su due elementi: la differenza della cognizione del tempo e dei rapporti fra il nostro ieri e il piccolo mondo che tocchiamo ogni giorno con mano. Così, mentre Franco e Francesco, si sfidavano a papalino con le nostre vecchie palline di vetro, a favore di telecamera, la partita andava avanti e non finiva più. Troppo lunga per i tempi dell’oggi. Noi intorno al mucchietto di palline, lungo la pista polverosa del Giro d’Italia coi tappetti della birra Peroni e della gazzosa Savi ci facevamo sera, fino a quando le madri chiamavano a gran voce dalle finestre, e noi, a malincuore, tutti impolverati, lasciavamo lo spazio aperto del cortile, del piazzale, della strada, e ci riducevamo fra le anguste quattro pareti di casa. E così era quando si andava a piedi a mare da piazza del Mercato allo scalo con l’asciugamani sulla spalla, il costume, gli zoccoli. Proprio tornando a giocare, a sottomuro, a fusetto, col piccolo c’è tornato alla memoria il continuo tira e molla sulle regole, le litigate, gli spintoni: quello che oggi gli esperti chiamerebbero il nostro socializzare. Per noi era naturale, stare insieme, parlare, giocare, venire alle mani, far partire qualche cartocceto dalla cerbottana e qualche sasso. Un altro mondo, un altro godere, un’altra emozione dallo stare, da soli, per ore, impalati davanti a uno schermo con un gioco che ti trovi lì, in cui le variabili sono state decise da altri: le squadre, le maglie dei calciatori. Quelli del nostro subbuteo prima del subbuteo erano i bottoni su cui appiccicavamo con acqua e farina dei pezzetti di carta come maglie delle nostra squadra che si muoveva sul marmo del tavolo di cucina. Giochi costruiti senza spendere una lira, come la dama con la base dei riquadri di cartone e le pedine ricavate segando un manico di scopa. Mi fermo qui nell’elenco dei giochi perché non vorrei dare l’idea di una semplice esercitazione intellettuale fra tutto il bene del passato, il nostro, e la diversità con il presente. Perché non è così. Perché è giusto ricordare anche le scarpe risuolate all’infinito, le toppe ai calzoni, i cappottoni ereditati con le maniche che ti arrivavano fino alle ginocchia, le rare scassate biciclette, i palloni deformati. Anche di questo abbiamo parlato con gli amici e con chi si è aggregato, incuriosito dai nostri movimenti. Recuperare la memoria non è un esercizio fine a se stesso, riguardare a come eravamo servirebbe ad apprezzare e, soprattutto, a migliorare la Piccola Città. Ma questo, a differenza del nostro costruito con canne e carta velina regolarmente volato in alto, è un aquilone che non prende quota, appesantito da un altro mondo, da cui ci si può allontanare per qualche ora di sana ricreazione.