Se fai quattro passi a piedi, vai irrimediabilmente a sbattere contro due tipi di persone: le une col cellulare attaccato perennemente all’orecchio o che sembrano parlare e gesticolare da sole come i matti, le altre che ti sbattono addosso, ti bloccano il passaggio, concentrate nell’ossessionante grattamento del foglietto del gratta e, quasi mai, vinci. Nessuna nostalgia per il vecchio Totip o per la schedina del Totocalcio: tutto e subito, una sfregatina veloce, un su e giù, attaccato alla macchinetta stile Las Vegas delle sempre più numerose sale giochi dove bivaccano gli aficionados delle scommesse, e sei ricco.
Altri tempi quelli dell’orecchio attaccato alla radio a valvole, spesso gracchiante, che ti dava la colonna vincente dopo la radiocronaca del secondo tempo della partita della “serie nazionale A”, smarcando, uno ad uno, con un pallino a matita i risultati azzeccati. E, se perdevi l’appuntamento radiofonico, c’erano i tabelloni affissi al bar Italia e alla Casa del Gelato. Due colonne, spesso buttate giù a caso o ripetendo sempre la stessa teoria di uno ics due. Poi c’erano gli esperti, gli scommettitori che si annidavano nei bar o dai barbieri, sempre col Corriere dello Sport, spiegazzato fino all’inverosimile. Dal lunedì veniva studiato il sistema che richiedeva la costituzione di una piccola società per azioni, quasi sempre la stessa: il barbiere, il fotografo del negozio accanto, il barista della vicina piazza, un paio di clienti habituè delle rasature del maestro. Alla fine, partiva il ragazzo spazzola, il giovane cameriere diretto alla ricevitoria, per giocare il sistema. Un revival, come spesso si dice, per una rinfrescata di qualcosa di vecchio, di passato, che può andare ancora bene. Un ritorno al sistema, alla giocata comune per tentare la fortuna. E questo revival non poteva che risorgere nel cuore ghettarolo della vecchia città con il patriarca rossoverde nerazzurro, cinquestelle pentito che ha chiamato a raccolta i sistemisti della Piccola Città. Un novello Leandro senza quercia, ma sempre con l’orgoglio della civitavecchiesità, questa volta messa a dura prova non dagli infedeli, dai mori, dai saracini, ma da un lanzichenecco paraculo che s’è portato via il cartellone e il sacchetto con tutti i numeri della tombola. Un sistemone collettivo che ha rivitalizzato le truppe fedeli, dopo che il feudatario s’era giocato castello, campagne e biade, rimasto solo coll’acqua del pozzo e la corda del secchio, secondo il detto marchigiano dovutamente tradotto. Un gratta e vinci non riuscito, un gioco d’azzardo un po’ troppo azzardato, che rischia di lasciare la magnatora senza fieno e senza biada. E allora tutti insieme appassionatamente a far preci e voti, cantare osanna, metter su il sistemone per riempire le casse prosciugate. “Pure io, pure io…” si sentiva aleggiare nell’aria fra la caffetteria e la paninoteca del Ghetto in una movida mattutina molto animata. “Pure io… pure io…”. Una corsa per la vita, per la sopravvivenza, un debito di riconoscenza da pagare, spontaneo e disinteressato. Una risposta del cuore, sincera, una gragnola di frecce scagliate dal castello contro l’improvvido ariete delle voci infondate dei soliti diffusori di zizzania (pochi e rari nel silenzio delle gazzette parascolastiche e celebrative) e da un canuto rincoglionito, magari sindaco, magari presidente della Cassa, magari stimato avvocato, magari persona colta ed equilibrata, ma ora un donchisciotte qualsiasi su un ronzino spelacchiato. Un richiamo all’ordine nella Piccola Città, stretta tra i feudi del potere, costretta da tempo a inchinare la testa ai signori e ai loro vassalli, a ripetere il ritornello del grazie del contributo perché sennò non potevamo, perché non abbiamo la biada e il musso arranca, asino nel proverbio veneto con debita traduzione. Del resto, che dire di questa levata di scudi e del rumore delle armi a difesa del castello e dei castellani? Chi altri coprirebbe le spese di rassegne, festival e festivaletti con relative passerelle, chi altri, e qui mi ci metto pure io ingiustamente dimenticato in questa chiamate alle armi, chi altri pagherebbe il conto della storica tipografia per stampare un mattone alla francese che fa l’elogio del console ciccione e malaticcio che odiava la Piccola Città e i suoi abitatori, distribuito a gratis e finito sotto qualche zampa d’armadio dondolante? Chi altri offrirebbe la parca mensa all’allegra combriccola della Sky de noantri che, finalmente, dà spazio alle associazioni e alla vita culturale cittadina, con quattro soldi, alla faccia delle vecchie e nuove facce televisive da portone che da quasi quarant’anni stanno a paghetta, si sono costruite ville e piscine con lo stemma del cavalluccio marino e, astutamente, sopra lo smoking, indossano il saio del rigore e dell’astinenza. Un fremito d’orgoglio della civitavecchiesità finalmente ritrovato, che un’anziana signora, con le lacrime agli occhi, ha saputo esprimere meglio di ogni altro: “E come faremo senza Terranova?”.